Il colibrì recensione
Il Colibrì è il romanzo vincitore del premio strega 2020. Scritto da Sandro Veronesi, l’autore di Caos calmo, è stato portato sugli schermi il 23 ottobre 2022. Diretto dalla regista italiana Francesca Archibugi, ripropone fedelmente l’andamento del libro, fatto di flashback e ritorni al presente.
Le differenze tra il libro e il film ci sono. Non sono tante, ma sono fondamentali: nel libro l’autore lascia molte situazioni in uno stato di sospensione (come è giusto che siano, perchè non possiamo essere onniscienti), nel film gli sceneggiatori (Francesco Piccolo e Laura Paolucci) portano alla luce scenari impensabili, che nel libro non sono stati approfonditi. Volutamente non approfonditi. Se un lettore può accettare di non comprendere una dinamica legata a un personaggio, diversamente uno spettatore detesta la sospensione dello sviluppo della trama, sarà per questo che la regista ha insistito nel mostrare e dimostrare le connessioni tra i personaggi. Del resto il filo sottile che separa la cinematografia dalla letteratura è proprio questo: la letteratura racconta la vita, il cinema ci propone storie di vita. In entrambi i casi il protagonista, Marco Carrera, è come un colibrì : in continuo movimento per rimanere fermo, la differenza è che nel libro percepiremo le sue continue sospensioni, nel film i suoi continui movimenti.
” Il fatto è che dietro al movimento è facile capire che c’è un motivo, mentre
è più difficile capire che ce n’è uno anche dietro l’immobilità”
Tematiche importanti quelle trattate nel Colibrì: la dignità nella vita e la dignità nella morte.
“Ho detto che man mano che vincevo tutti quei soldi la vita che vivevo
ogni giorno diventava sempre più misera. Vincevo cinquantamila euro e
pensavo che mi ci sarei comprato una macchina nuova, perché quella che
avevo improvvisamente era un catorcio. Ma io non l’avevo mai pensato,
prima, che fosse un catorcio. Capisce?
– Capisco.
– È una cosa tipica del giocatore: schifare la propria vita, pensare di
cambiarla vincendo, anche se in realtà quel desiderio non l’ha mai
veramente avuto. Ero sopra di duecentomila e mi vedevo alle Maldive, o in
Polinesia, nei posti di lusso dove in realtà non ho mai desiderato andare.
Quattrocentomila, ed ecco spuntare assistenti, servitori, cuoche, autisti,
bambinaie, come se a me mancasse quello, come se io non desiderassi altro
che smettere di occuparmi di me stesso e di Miraijin. Seicentomila, ed ecco
che smettevo di lavorare e andavo in pensione, come se il mio lavoro, che
faccio da trentacinque anni, per il quale mi sono sacrificato e al quale ho
dedicato tanto tempo, di colpo mi facesse schifo. Ma non era vero. A me la
vita che vivo non fa schifo, anzi, mi piace, perché diversamente da tante
altre vite la mia ha uno scopo”