La teoria della lingua di Dante
Dante nella Vita Nova sostiene che anticamente non c’erano poeti d’amore in volgare, dando per scontato che la diglossia latino/volgare esisteva già nell’antichità.
I primi nel mondo latino che inaugurarono questa opzione furono i primi poeti in lingua d’oc e per una motivazione ben precisa: per farsi capire da una donna la quale non capiva i versi latini. Questa presupposizione viene focalizzata e teorizzata nel De vulgari eloquentia in cui le due lingue vengono chiamate “locutio vulgaris” e “locutio secondaria”. La vulgaris locutio è universale ed è propria di tutti gli esseri umani, non posseduta né dagli angeli né dagli animali; la locutio secondaria, invece, è posseduta solo da alcuni popoli (“Greci et alii, sed not omnines”) e, all’interno di questi, solo da quelli più istruiti poiché per parlarla bisogna conoscerne le regole. La prima è naturale, la seconda artificiale. La locutio secundaria si chiama così perché compare seconda sia nella storia dell’umanità sia nella storia dell’individuo ed inoltre perché è una rielaborazione secondaria della locutio vulgaris.
Oltre al latino dante cita solo il greco forse perché non ne sapeva abbastanza riguardo ad altre lingue o forse per motivi religiosi. Ad esempio, infatti, avrebbe potuto citare l’arabo, terza lingua di cultura del mediterraneo sovrapposta ad altre lingue volgari di uso quotidiano.
Dante chiama la locutio secondaria, ovvero il latino, gramatica. La gramatica non è una lingua naturale che si è andata perfezionando col tempo e successivamente codificata dai grammatici, ma è una lingua artificiale creata prima che la potessero utilizzare i poeti. Questa lingua è inalterabile nel tempo: poiché è stata regolata per consenso comune di molte genti non appare esposta all’arbitrio individuale e perciò non può mutare. E’ stata creata per poter comprendere i testi del passato e per intendersi fra genti lontane. L’idea espressa da Dante, lungi dall’essere rivoluzionaria, doveva anzi essere abbastanza comune al suo tempo.
Nel Purgatorio si parla di “lingua nostra” il che sembra agli antipodi con la visione del latino come lingua artificiale. Ma c’è da dire che anche la terminologia usata nel DVE lascia intendere che la lingua volgare del sì (l’italiano) sia strettamente imparentata col latino. E infatti questa stretta somiglianza fra la lingua di sì e il latino può essere spiegata dal fatto che i grammatici, nel costruire la lingua latina, abbiano preso fortemente in considerazione il volgare di sì. Ciò porta a sentire per così dire l’italianità del latino e a vedere gli italiani come eredi dei romani e a sentire il latino come “lingua nostra”.
La gramatica, cioè la lingua latina, è stata inventata dopo la diversificazione delle varie lingue per porre rimedio alla variabilità ma prima dell’impero romano. Le molte genti di cui i grammatici hanno tenuto conto siamo noi. Il latino poi si è diffuso in tutto l’Impero romano.
Interessante a tal proposito il passo della Divina Commedia in cui Dante incontra Adamo il quale gli descrive la sua lingua (cioè l’ebraico). Adamo dice che la lingua da lui parlata si era già spenta prima della costruzione della torre di Babele (“ovra inconsumabile”) quindi contraddice l’idea secondo cui è la confusione babelica a produrre l’oblio dell’ebraico (la lingua adamica appunto). La trasformazione e l’estinzione delle lingue umane sono considerati suoi tratti costitutivi e le lingue sono assimilate a oggetti biologici: sono in continua trasformazione.