Alcesta: simbolo di amore coniugale

alcesta

Alcesta è un centone virgiliano, opera di incerto autore e di dubbia cronologia (probabilmente risale al V sec. d. C.). Ha per argomento uno dei miti più toccanti e delicati del mondo greco-romano: l’amore coniugale. Un amore celebrato con orgoglio che giunge fino alla morte.

Il centone è un carme composto da versi o segmenti di versi combinati tra loro e desunti da celebri poeti. La maggior parte di quelli noti sono tratti da Omero e Virgilio. L’Alcesta è, per l’appunto, un centone virgiliano.

La sua storia era già stata trattata da Euridipide, ma qui il finale non ha la stessa impostazione positiva. Euridipe concesse all’eroina la possibilità di tornare da marito e figli dopo il sacrificio, grazie all’intercessione di Ercole che la riportò nel mondo togliendola all’oblio dell’oltretomba. L’anima era così diventata l’espressione dell’amore tra due creature mortali, tanto forte da suscitare l’ammirazione degli Dei.

Nel centone virgiliano questo riconoscimento non c’è: è celato.

Trama

Alcesta è figlia del re Pelia il quale decise di darla in sposa al giovane valoroso che fosse riuscito a sconfiggere un leone famelico e un cinghiale brutale. A presentarsi all’appello è il giovane Admeto che, con l’aiuto di Apollo, vince la caccia e ottiene in sposa Alcesta. Purtroppo il fato è crudele e impetuoso giunge il responso delle Parche: Admeto deve morire, questa è la sua sorte. Il giovane invoca nuovamente Apollo, nella speranza di ottenere la grazia, ma tutto ciò che ottiene è un compromesso: per rimanere in vita qualcun altro deve prendere il suo posto. Admeto supplica il vecchio Pelia di sacrificarsi, ma questi rifiuta; sarà allora la moglie a prenderne il posto, immolandosi coraggiosamente.

In altre varianti della storia troviamo anche i genitori di Admeto che, nonostante il legame di sangue, non hanno intenzione di sacrificare la propria vita per il figlio.

Nel centone virgiliano manca dunque il lieto fine: nessun Dio andrà nell’oltretomba per riportare Alcesta alla vita. Possibilmente questa trasformazione da commedia in tragedia è data per mettere l’accento ancor di più sul coraggio di Alcesta, incarnazione ideale della matrona romana.

“Che c’è mio bellissimo sposo? […] Quale indegno motivo deturpa il tuo volto sereno? Quale sorte ti incalza? Qualunque sia la fortuna appartiene anche a me! […] A sua volta Admeto, traendo gemiti dal profondo petto, risponde così: […] il chiamato Apollo mi predisse questo lutto: è possibile sacrificare un’altra vita o andare incontro a morte sicura […] Moriamo, allora! […] In me non ci sarà indugio alcuno!”

E di fatto nessun indugio la tormenta, Alcesta è decisa a morire per il marito, per lasciare un padre ai suoi figli e un combattente al suo paese.

Neppure Admeto è dubbioso, tentennante, insicuro di accettare o meno l’offerta d’amore della regina sua compagna. Si dimostra straziato, riconoscente (tanto da promettere doni al suo altare in eterno), promette di far rispettare i loro figli, di comportarsi bene sempre, ma tiene cara la pelle! Non rifiuta l’offerta di sacrificio della moglie, né tanto meno prova a persuaderla. Ovviamente questo atteggiamento sviluppato nella tragedia è portatore dei valori dell’epoca, un’epoca in cui la figura della donna era meno importante di quella dell’uomo e il rispetto era dato solo quando venivano manifestati determinati atteggiamenti sottomissori e devozionali. Alcesta è esaltata come una matrona romana, una donna capace di morire per far vivere; è proprio questo il tema della storia: la morte che fa vivere.

Oggi servirebbe semplicemente qualcuno capace di riscrivere la storia: Alcesta si offre di morire per amore, ma Admeto non accetta, perchè preferisce farla vivere per amore!

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