Pipò. Storia di un lombrico umano irriverente e istrionico
Breve nota critica al volume di M. Temperini, Pipò. Storia di un lombrico umano irriverente e istrionico.
Di
Riccardo Renzi
Il presente lavoro sorge, almeno in origine, come una recensione del volume del prof. Massimo Temperini[1], Pipò. Storia di un lombrico umano irriverente e istrionico[2], edito da LuoghInteriori nel 2023, ma sia per la grandezza della scrittura del Temperini, sia per i temi trattati, si è ritenuto opportuno optare per una Nota criticache potesse al meglio contenere un’adeguata analisi dell’opera.
Temperini, in un agile volumetto di meno di cento pagine, ripercorre l’eroica vita del padre, Pipò, fatta di fatica, sudore e sacrificio. Fin dalle primissime righe si riscontra un richiamo al Verga de I Malavoglia[3], e volendo andare al di fuori del panorama letterario nazionale, per quanto concerne il ritmo della narrazione, forte risulta essere l’ammiccamento al Màrquez di Cent’anni di solitudine[4]. Le realtà narrate dal Temperini sono quelli appartenenti a un mondo ormai non più esistente, dove la vita, quella contadina, era scandita dal ritmo delle stagioni «Esse delineavano confini precisi tra il dare e l’avere e per secoli erano state la clessidra vitale del contadino»[5]. Questo è un mondo ormai sommerso, completamente inglobato dall’industrializzazione e dalla globalizzazione, che si può ricostruire solo attraverso la memoria di pochi anziani. Il lavoro dell’autore origina proprio dalla ricostruzione della memoria del padre, Pipò, un contadino di altri tempi, ribelle, estroso e segnato dalla malformazione fisica. Egli però aveva sempre aborrito i lenti ritmi della vita contadina ed era alla continua ricerca di un’occasione di riscatto, «In paese si aveva bisogno di manodopera. I nuovi edifici poggiavano su palificazioni scavate a mano: ecco allora profilarsi la possibilità di farsi notare»[6]. È proprio da questo episodio che prende le fila la metamorfosi dell’uomo Pipò in “lombrico umano”, dalla quale deriva anche il titolo dell’opera. La fatica disumana fatta da quest’uomo nell’atto di scavare a mani nude la dura terra, è intuibile dal passo successivo, che è opportuno riportare nella sua interezza: «Tra l’umida terra, come un lombrico, si scivolava in profondità. Il respiro diventava affannoso e le reni erano ricoperte di melma. In quell’asfittico spazio, l’aria a dodici e fino a quindici metri di profondità, arrivava a fiotti e occorreva mantenere un ritmo convulso fatto di movimenti rabbiosi che con le corte gambe lui riusciva a imprimere alla pala ricurva»[7]. Temperini in tutto il testo riesce, con gran successo, ad imporre un ritmo e una musicalità delle parole costanti, che incollano il lettore alle rocambolesche vicende della vita di Pipò, dalla vita contadina, all’incidente causato dalla “maledizione della bionda badessa”, sino al tanto agognato riscatto sociale. Assieme alla vita del padre, l’autore, ci narra le vicende legate a un mondo che in quegli anni[8] stava mutando rapidamente. È proprio in questi anni che si va a cambiare profondamente il paesaggio rurale, quello di piccoli borghi, che vengono spesso demoliti senza alcun criterio, per fare spazio alle moderne abitazioni in cemento armato, come nel caso del Torchiaro[9]. L’Italia narrata da Temperini, in particolare nella prima parte del volume, è la medesima di quella raccontata nelle denunce sociali anti capitalistiche di Pasolini. Con un complesso lavoro di immedesimazione, l’autore, attraverso gli occhi del padre fa rivivere al lettore tutto quel mondo, fatto di tradizioni, religiosità, rapporti famigliari[10] e fatica, tanta tanta fatica.
A partire dal V capitolo, i richiami a di Cent’anni di solitudine si fanno sempre più forti, è proprio qui che si inizia a ricostruire la storia del piccolo Pipò e del borghetto dei “casanaolanti”[11] in Contrada San Girolamo[12]. In questo luogo al di fuori del tempo, è ambientata la storia di persone imbevute di miseria, ma ricche di inventiva e speranza, che da nullatenenti si fanno abili mercanti. Pipò, oltre alla miseria, fin da piccolo dovette sopportare il su stato di malformato[13], ma questo non lo frenò mai. Egli non si arrese mai e combatté per tutta la vita come un leone, «odiava quel piangersi addosso da donnicciole che scrollavano le spalle e pronunciavano la formula magica sunpo’ si riavviavano al lavoro a testa bassa più sottomesse di prima»[14].
Non voglio però anticipare al lettore ulteriori informazioni, poiché questo è un libro che va letto, assaporato e saggiato sino in fondo e che nella degradazione dell’editori d’oggi, costituisce una vera e propria rarità, è un libro d’altri tempi che narra un mondo ormai scomparso. Buona lettura!
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[1]Massimo Temperini si laurea nel 1979 alla facoltà di Architettura dell’Università di Firenze
Nel 1986 è vincitore di cattedra per l’insegnamento di Storia dell’Arte che impartisce nel Liceo Classico tranne un breve periodo (1991/96) all’Istituto d’Arte di Fermo dove è fondatore e Direttore di Laboratorio nel corso di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali. Nello stesso lasso di tempo Fonda una società che si occupa di Catalogazione Informatica e Multimedia e ottiene una menzione speciale a Media Save Art ’91 rassegna internazionale tenutasi a Roma. Pubblica come co-autore Progetto software per la fruizione multimediale di opere d’arte negli atti di DIDAMATICA ’91, Università degli Studi di Bologna. Nel 1998 pubblica, come ideatore, regista e autore dei testi, il CD-ROM Botticelli: mito, fede e natura, edito da Jaca Book e L’immagine esemplare, approfondimento filologico-scientifico sul «Polittico di Porto San Giorgio» di Vittore Crivelli. Scrive e pubblica di storia e arte locale. Nel 2011 cura il volume La Cavalcata dell’Assunta e la Città di Fermo, Storia- Arte- Ritualità- Araldica. Oltre all’ininterrotta attività professionale è continuamente impegnato in progetti di Formazione Regionale attinenti i settori storico-artistici e professionali-artigianali. Dal 2004 al 2008 è docente a contratto all’Università di Macerata nel Corso di Studi in «Mestieri dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo», dipartimento di Filosofia. Dal 2015 ricopre il ruolo di Presidente della Società Dante Alighieri Comitato di Fermo, celebrando il 130° anno di vita del sodalizio con una imminente pubblicazione.
[2]M. Temperini, Pipò. Storia di un lombrico umano irriverente e istrionico, Città di Castello, LuoghInteriori, 2023.
[3]G. Verga, I Malavoglia, introduzione e note di Nicola Merola, Milano, Garzanti, 1989.
[4]G. G. Marquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Mondadori, 1996.
[5]M. Temperini, Pipò., cit., p. 7.
[6]M. Temperini, Pipò., cit., p. 8.
[7]Ibidem.
[8]Si parla degli anni cinquanta del Novecento.
[9]È un piccolo agglomerato urbano della provincia di Fermo, divenuto a partire dal 1860 frazione di Ponzano di Fermo. Il nome, di origine longobarda, richiama il concetto di unità di distribuzione di prodotti agricoli. Torchiaro nel 1300 era uno dei castelli di Fermo. Il Castrum Torchiarii era di piccole dimensioni. La parte più antica del XIV sec. è ancora documentata da un porta a sesto acuto, con rifacimenti ancora visibili del secolo successivo.Nel 1833, con la suddivisione territoriale dell’epoca, divenne comune appodiato della Comunità di Ponzano. Nel 1860, con l’Unità d’Italia, ebbe titolo di frazione del comune di Ponzano di Fermo.A Monterubbiano è conservato un atto di transazione per la determinazione dei confini tra questo Comune e il Torchiaro, risalente al 1763.
[10]In particolar modo nel IV capitolo l’autore ricostruisce il rapporto tra il protagonista e il padre.
[11]Sono coloro che vanno in affitto.
[12]Contrada periferica del comune di Fermo.
[13]Il protagonista aveva una malformazione alle gambe.
[14]M. Temperini, Pipò., cit., p. 43.
Una risposta
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